di Maurizio Iorio
Se i fratelli Cohen avessero girato in Italia il loro film “Non è un paese per vecchi” (quello con Javier Bardem killer seriale), probabilmente avrebbero tolto il “non”. Perché in questo paese sono ancora gli over 50 a lavorare per costruire il futuro, non il loro, ma quello dei loro figli, che quando possono giustamente fuggono all’estero, dove la meritocrazia non è un refrain che abbonda nella bocca dei politici, e le occasioni per farsi valere sono a portata di mano, basta coglierle. Breve premessa per parlare della scena musicale napoletana, che sta risorgendo come l’araba fenice dalle sue stesse ceneri, grazie agli stessi che l’hanno creata, 30-40 anni fa. Due nomi: Pino Daniele, i fratelli Bennato, Napoli Centrale, NCCP, Teresa De Sio, Alan Sorrenti, Tony Esposito, e poi, a seguire, Alma Megretta, 24 Grana, 99 Posse, mi perdonino i tanti non citati. All’epoca la scena partenopea era come il Vesuvio dei tempi d’oro, canzoni come lava incandescente, numerose come lapilli. Non credo sia un azzardo affermare che la musica etnica sia nata proprio all’ombra del vulcano, dove è stato elaborato il prototipo della musica meticcia fondendo il blues ed il jazz portati dagli americani con i ritmi della costa mediterranea, con le tradizioni cantautorali nazionali, e con quella metrica della quotidianità che non si può importare, perché è scritta nella genetica partenopea. Per un po’ di anni, diciamo almeno gli ultimi 10-15, Napoli si è trasformata in una Pompei post-moderna, solo rovine, nessuna voglia e capacità di ricostruire, nuove leve zero o quasi (Gigi d’Alessio? Per Nino d’Angelo “non è un cantante napoletano, ma un napoletano che canta”). Comunque, a conti fatti, nel giro di tre mesi sono tornati alla ribalta alcuni vecchi protagonisti, freschi di energie nuove come se nella vita gli anni non avessero un senso: Pino Daniele, Enzo Avitabile, Nino D’Angelo e Joe Barbieri, che è in credito di oltre dieci anni, ma ben venga. Neanche si fossero messi d’accordo hanno sfornato quattro gioielli, lavorati di fino come fanno i maestri orafi, sorvegliati da vicino da una banda di grandi del settore. Se li vendessero insieme in un unico box farebbero una bella operazione commerciale. Prendi quattro e paghi due…Enzo Avitabile
Black Tarantella (Cni)
Pino Daniele, Raiz (Almamegretta), Enrique e Solea Morente (i migliori del flamenco spagnolo), Francesco Guccini (Bologna la grassa), Idir (il più grande degli algerini, ascoltate “A vava inouva”, con il soprano Karen Matheson, http://www.youtube.com/watch?v=i6ZZC9wR0io ), Bob Geldorf (l’Isola di smeraldo, ex-Boomtown Rats), Franco Battiato (sotto un altro vulcano), David Crosby (California in my mind, “Se solo potessi ricordare il mio nome”), Mauro Pagani (il maestro dei maestri Genova), Daby Tourè (Mauritania, pupillo di Peter Gabriel), Co’ Sang (Napoli hip hop), Toumani Diabatè (Mali), i Bottari (gruppo campano che percuote botti, tini e falci). Non è l’agenda telefonica di una casa discografica, ma la lista degli invitati a casa Avitabile, per ballare e suonare la sua “Black Tarantella”. Album splendido, quasi commovente, con il 57enne sassofonista che dirige con maestria ed umiltà un parterre de rois a dir poco stratosferico. World music? Un eufemismo. Meglio cosmopolita, ma non rende lo stesso l’idea. Qui siamo al passaggio successivo, all’assemblaggio sonoro di vecchi artigiani della musica, di quelli che producono cose che nessun altro, tantomeno le macchine, è in grado di fare. Brani dalla ritmica mediterranea, che parlano di grandi temi personali e sociali, l’amicizia, la religione, le morti bianche, i soprusi, la pace. Ogni ospite ha scritto una canzone nella canzone (Guccini canticchia in modenese in “Gerardo nuvola ‘e povere”), due linee che viaggiano parallele in un solo spartito e che, alla fine, come le strade che corrono verso orizzonti lontani, finiscono per incontrarsi, anche se è solo un’ illusione ottica. Invece, qui, la fata Morgana trasforma tutto in realtà. Pino Daniele
La grande madre (Blue Drag)
Pino Daniele ha il dente avvelenato, ed a ragione, con la discografia italiana. Anzi, con i discografici, che stanno calla canna del gas, ma non per colpa del popolo del web. Erano alle strette anche venti anni fa, a causa solo della loro ottusa politica aziendale. Ma questo è un discorso che meriterebbe un capitolo a parte. Comunque, per non avere più a che fare con gente che dei dischi sa solo che sono tondi, il musicista napoletano s’è messo su la sua etichetta, la Blue Drag, dal titolo di un brano jazz degli anni ’40 di Django Rejnard. Sarà l’entusiasmo per la sua nuova creatura, ma se il buongiorno si vede dal mattino, potrebbe esserci un futuro non solo per Pino Daniele, che ormai da buon 57enne il futuro ce l’ha alle spalle, ma per molti giovani che non riescono a trovare ascolto presso le major perché la loro musica non è “radiofonica”, oppure da concorso televisivo. Si comincia dal booklet, curato come se fosse un oggetto da collezione. Biligue, belle foto sgranate, addirittura gli spartiti delle canzoni. E un curioso scritto di Enzo Avitabile sulla “parlesia”, il gergo a tradizione orale usato dagli orchestrali napoletani per non farsi capire dal pubblico. “La ricerca della grande madre è il viaggio che ognuno di noi sogna di intraprendere per un futuro migliore. La grande madre sta in tutte le radici che ci danno una mano per volare, se non per scappare da una società preda di un cupio dissolvi, precipitata nel tunnel dell’autodistruzione”. ha spiegato l’artista. Sono tredici, i capitoli de La grande madre”, tutti a firma Daniele, tranne una interpretazione italiana di “Wonderful Tonight” di Eric Clapton. Progetto complesso e omogeneo, “La grande madre” viaggia fra il classico blues alla napoletana, le variazioni jazz, una chitarra che s’insinua alla Santana maniera, e un pugno di strumentisti “da paura”,come si dice a Roma. A cominciare da Omar Hakim, uno dei più grandi batteristi viventi, al solito sax di Mel Collins, per finire con mezza backing-band di Eric Clapton (Steve Gadd e Chris Stainton). Nino D’Angelo
Tra terra e stelle (Nar International)
Ai tempi di “Nu jeans e na’ maglietta” nessuno avrebbe scommesso neanche una “pizza di fango del Camerun” su Nino d’Angelo, portabandiera dei neomelodici napoletani, ex-scugnizzo trasformatosi in principe a metà degli anni ’90, quando “Terranera” scompaginò le aspettative. Un critco impietoso, e forse anche astioso, scrisse che Pino Daniele avrebbe dato un braccio poter fare musica come Nino D’Angelo”. L’ultima fatica discografica, “Tra terra e stelle”, nei negozi da un paio di mesi, è decorata nel packaging da un artista come Mimmo Paladino, noto esponente della Transavanguiardia italiana. Come per Daniele, anche qui grande cura per la cornice, che non è solo uno specchietto per le allodole. Aprire un album con una poesia, “l’Alba”, in cui D’Angelo recita accompagnato da un violino, la dice lunga sulla idea che questi musicisti hanno della commerciabilità, tanto cara ai discografici. “Tra terra e stelle” è un album ispirato, si potrebbe dire pragmaticamente spirituale. Nino D’Angelo l’ha definito un “disco da camera, né neomelodico, né etnico”. Il ritmo di fondo è sempre lo stesso, quello della Napoli millenaria, sul quale si innestano le piccole storie quotidiane, che sono rappresentative di problematiche sociali forti ed estremamente attuali. “Italia bella”, un calypso che spiattella i mali del Paese, “con molte stelle e nessun varietà”, ricorda da molto da vicino “Viva l’Italia” di De Gregori. E poi l’amore (“Ammore è da”) , i ricordi d’infanzia (“Due vite”) , una tammurriata (“Uocchie e mare”), vite che devono ancora vedere la luce (“Sarraje”). Il tutto ben suonato e meglio cantato, con una forte vena pop, nel senso di popolare. Ma anche raffinato, come il principe de Curtis, in arte Totò.