di Roberta Balzotti
“Sono sempre in tournée, tournée internazionali. Non torno nello stesso posto prima di due anni. Ed è bello e giusto che sia così. Perché, come puoi amarmi se non ti manco?”. Angelo Branduardi, il menestrello della canzone italiana, comincia una nuova tournée che lo terrà impegnato anche fuori dall'Italia fino alla primavera del prossimo anno. Il 2 aprile, dal Teatro Nuovo di Milano, parte infatti il “Camminando Camminando Europe Live Tour”, che prende il nome dall'ultimo album, “Camminando camminando 2”, un'antologia di canzoni dal 1996 a oggi.
In quale forma proporrai queste canzoni durante i concerti?
Non ho una scaletta fissa. Con i musicisti ci conosciamo e suoniamo insieme da tanto tempo. Certo, abbiamo un brano alfa e un brano omega e all’interno di questo spazio ci muoviamo. Un concerto dovrebbe essere quasi la sola forma di espressione musicale. Il bello di un concerto è che passa, finisce e non torna più: è un fatto unico. Per questo non sono tanto favorevole ai dischi live. Ne ho fatti due in quarantadue anni di carriera. Il concerto se ne va ed è irripetibile, non puoi fotografarlo.
Nell'album “Camminando camminando 2” c'è un solo inedito, “Ratataplan”, con testo di Giorgio Faletti, con il quale hai collaborato anche in passato. Che rapporto hai con lui?
Siamo molto amici. Penso sia il mio migliore amico. Sono stato forse il primo a capire che dietro la vis comica di Giorgio c’era un grande talento letterario; e lui lo riconosce sempre, ringraziandomi nella quarta di copertina.
Sembra che la tua generazione faccia fatica, oggi, a scrivere canzoni nuove: penso a Finardi, che da tanto tempo non esce con un album tutto di inediti, a Concato che ne ha pubblicato uno in questi giorni dopo undici anni, tanto per citare un paio di tuoi colleghi. Cosa succede?
L’artista in genere, non solo il musicista, è stimolato nella sua ispirazione dall’aria che respira. Evidentemente l’aria che noi respiriamo in questo periodo è un’aria morta, mefitica, non porta spinta. Penso sia questo.
E l'attuale discografia che ruolo ha?
Io e i miei coetanei artisti abbiamo vissuto il cosiddetto periodo d’oro che è durato la bellezza di vent'anni e anche di più, per cui adesso ci troviamo un po’ di fronte alle parole profetiche di Jannacci di quarant'anni fa: “La casa discografica adiacente veste il cantante come un deficiente, lo lancia sul mercato sottostante” ('Canzone intelligente', portata al successo da Cochi e Renato, n.d.r.). Ecco questa è l’immagine dei talent show.
Il tuo rapporto personale con la discografia qual è e com'è?
Con le case discografiche, anche quando non ero conosciuto, ho sempre avuto rapporti indipendenti, solo di distribuzione. Ho avuto difficoltà a far accettare “Alla Fiera dell’Est” piuttosto che il disco di San Francesco, ma ho avuto ragione io... Le case discografiche stanno alla canna del gas.
Una canzone come “Alla Fiera dell’Est” te la porti dietro come un fardello?
Assolutamente no. Io avrei voluto averne fatte mille di Fiere dell’Est. E, se posso essere immodesto, con “Alla Fiera dell’Est” io ho raggiunto una sorta di immortalità. Se vai da un bambino delle scuole materne e chiedi chi è Branduardi, lui non lo sa. Ma se gli chiedi la canzone del topolino lui la canta. Significa che l’autore ha perso la sua opera e l’opera è diventata di tutti, patrimonio popolare.