di Paola Cortese
Gli svizzeri del Cantone dei Grigioni sono molto attenti ai temi ambientali: sanno che il riscaldamento globale può sconvolgere il profilo millenario delle loro Alpi. Nel programma del loro governo infatti ci sono chiare assunzioni di responsabilità e impegni di investimento nell’ambiente. Ma solo fino alla soglia di casa. Perché questo non gli impedisce di programmare la costruzione in Italia di una centrale a carbone che non accetterebbero mai sul loro territorio. E’ quello che Markus Keller, tra i promotori di un referendum contro il carbone in Svizzera, non esita a definire un “nuovo colonialismo”. La centrale in questione è quella che sta per vedere la luce a Saline Ioniche, in provincia di Reggio Calabria, da parte del consorzio Sei, capeggiato dalla società svizzera Repower, che – spiega Keller – “appartiene per l’80% a enti pubblici: una contraddizione palese e molto imbarazzante”.
Per fermare questo progetto che definiscono “inutile e dannoso” le quattro più importanti associazioni ambientaliste italiane, Greenpeace, Legambiente, Lipu e Wwf, hanno presentato un ricorso al Tar contro il via libera della presidenza del Consiglio dei ministri. Un sì arrivato dopo e a sprezzo di molti no, spiega Nuccio Barillà, di Legambiente: “C’è stato il parere negativo del ministero dei Beni culturali per la presenza archeologica e per i vincoli paesaggistici, ma soprattutto si è ignorato il piano energetico della Regione Calabria (che ha presentato a sua volta ricorso) che vieta espressamente la costruzione di centrali a carbone e punta sul mix tra rinnovabili e efficienza energetica”. Barillà sottolinea che si tratta di un territorio famoso in tutto il mondo per la produzione di bergamotto, coltivazione di pregio che dà lavoro a 700 aziende e la cui coltivazione sarebbe messa a grave rischio dalle emissioni. Non vale neanche il ricatto occupazionale, se la centrale è in grado di assicurare soltanto 140 posti di lavoro, a fronte di un investimento di un miliardo e mezzo di euro.
La combustione di carbone rappresenta la più grande fonte artificiale di anidride carbonica, secondo molti studiosi causa primaria del riscaldamento globale. Le associazioni ambientaliste si chiedono che senso abbia programmare la costruzione di una nuova centrale a carbone mentre si discute di una politica energetica fondata su fonti pulite, rinnovabili. Proprio mentre è in corso, a Doha, in Qatar, fino al 7 dicembre, il nuovo vertice internazionale sul clima. “Eppure – commenta Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia – la quota di energia ricavata dal carbone nel nostro piano nazionale è ancora del 13%, che causa oltre il 30% delle emissioni totali: una percentuale che occorre abbattere al più presto”.
L’impatto non è solo sul clima, ma soprattutto sulla salute: Greenpeace ha fatto una stima dei danni basata su un algoritmo dell’Agenzia ambientale europea, secondo il quale la centrale di Saline Ioniche, con 7,6 milioni di tonnellate di CO2, causerebbe ogni anno 44 morti premature, 101 milioni di costi sanitari, 500mila euro di danni all’agricoltura e 250 milioni di euro. Ma Saline Ioniche è solo una parte del “fronte del carbone”: altri punti caldi sono Porto Tolle (progetto di riconversione da olio combustibile in pieno parco del Delta del Po), Vado Ligure (progetto di ampliamento della centrale esistente), Sulcis. In tutta Italia ci sono 13 centrali a carbone, l’unica di nuova generazione è quella di Civitavecchia. Le associazioni ambientaliste chiedono che dalla Strategia energetica nazionale “venga eliminata la quota di carbone prevista e si sviluppino fonti di energia pulita e più efficienti”. Chiunque sia interessato può firmare la petizione http://stopcarbone.wwf.it/firma-la-petizione.html