di Rodolfo Fellini
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Lo scenario è noto: quattro anni di crisi economica, sacrifici che, almeno nel breve termine, non trovano risposte efficaci e un elettorato sempre più deluso e disorientato. I Paesi Bassi, con il loro sistema elettorale proporzionale puro, non sfuggono alla regola e mostrano tutto l’affanno che attraversa le democrazie europee, a qualsiasi latitudine, in un momento in cui molte fondamentali scelte vengono decise a Bruxelles. L’instabilità politica nella terra di Erasmo da Rotterdam si traduce con dinamiche che ricordano la nostra Prima repubblica. Per la quarta volta consecutiva, gli olandesi tornano alle urne anticipatamente rispetto alla scadenza naturale del Parlamento.
Sono chiamati ad esprimersi 12,5 milioni di elettori, su una popolazione complessiva di quasi 17 milioni. In palio, i 150 seggi della Camera, mentre il Senato è espresso a suffragio indiretto dai Consigli delle 12 province. I Paesi Bassi hanno un sistema proporzionale secco, senza sbarramento né premi di maggioranza e con un unico collegio nazionale. Attualmente, siedono in Parlamento 10 partiti, e ben 7 contano almeno 10 deputati. Tutti i governi del dopoguerra sono stati di coalizione: l’ultimo è durato un anno e mezzo, il penultimo tre anni.
Anche la politica olandese si riconosce in due grandi famiglie: quella conservatrice, con capofila il Vvd (liberali) dell’attuale premier Mark Rutte, e quella progressista, con in testa il PvDA (socialdemocratici) di Diederik Samsom. Tra le due, i cristiano-democratici, storico ago della bilancia. A destra dei liberali, il Pvv di Geert Wilders e i partiti religiosi Unione cristiana e Partito riformato. A sinistra dei socialdemocratici, i socialisti (ex maoisti) di Emil Roemer, gli europeisti e laici del D-66, i Verdi e il Partito degli animali. Le forze più radicali, a destra come a sinistra, sono pervase da populismo ed euro-scetticismo.
Il tramonto dei cristiano-democratici
La storia dell’Olanda contemporanea è dominata dai cristiano-democratici, alleati ora della destra, ora della sinistra. Il loro ruolo si indebolisce lentamente fino all’esclusione dal governo quando, nel 1994, laburisti e liberali si alleano in una Grossekoalition ante-litteram. Nel 2002, la coalizione socialdemocratici-liberali perde la maggioranza a causa dell’emergere della lista di Pim Fortuyn, primo leader xenofobo olandese, ucciso poco prima del voto. Il nuovo governo accomuna destra moderata e radicale e concede nuovi spazi ai cristiano-democratici, ma crolla dopo soli 3 mesi. Orfana di Fortuyn, l’estrema destra trova un nuovo leader in Geert Wilders, che nel 2005 fonda il PVV. Quest'ultimo assume forti connotati anti-islamici e, nel giugno 2010, diventa la terza formazione del Paese. Mark Rutte forma un governo che vede insieme liberali e cristiano-democratici in un esecutivo di minoranza (52 seggi su 150), ma appoggiato dell’estrema destra, che può così dettare alcuni fondamentali punti dell’agenda politica. Il governo precedente aveva visto insieme socialdemocratici, cristiano-democratici e conservatori in un’esperienza anomala, nata per arginare la progressiva polarizzazione dell’elettorato, ma costretta a gettare la spugna per le fratture ideologiche tra i partiti che la componevano.
Kok e Balkenende, otto anni a testa
Nonostante la frammentazione politica, l’Olanda ha espresso due leader che nell’ultimo ventennio hanno saputo garantire una certa stabilità. Il socialdemocratico Wim Kok, rimasto in carica alla testa di vari governi dal 1994 al 2002, ha messo in campo grandi doti di mediatore con gli alleati liberali, sostenuto da una congiuntura economica favorevole. Più tormentato il percorso del cristiano-democratico Jan Pieter Balkenende, che in 8 anni guidò 4 diversi esecutivi, alleandosi prima con la destra e poi con i socialdemocratici. A farlo cadere, il voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. L’esperienza di Mark Rutte, primo esponente del VVD a guidare un governo in quasi un secolo, è stata la più laboriosa della storia recente del Paese. Il suo governo, nato dopo mesi di trattative, ha subito il forte condizionamento della crisi economica e i dettami dell’Europa. Per contenere il deficit di bilancio, Rutte varava a marzo un provvedimento di austerity, contenente tagli alla spesa per 16 miliardi di euro. Bocciando la legge e ritirando l’appoggio esterno, il PVV ne ha provocato la caduta e l’inevitabile ritorno alle urne.